E poi un’ulteriore porzione della semina si trova in un luogo apparentemente favorevole. La terra è buona, l’acqua è abbondante. Sembra non mancare nulla alla speranza umana di un buon raccolto.
Accade che si rimanga affascinati dalla proposta di Gesù, dalla speranza evangelica e dall’amore annunciato. E se ne comincia anche a sperimentare la bellezza e il frutto. Poi la routine e la stanchezza lasciano prevalere la tentazione di rimettere in discussione tutto per tornare al prima. Come Israele incamminato verso la libertà che rimpiange l’Egitto. Come Giacomo e Giovanni in cammino verso la Croce che cercano i posti migliori nel Regno. Come Pietro, che dopo la Trasfigurazione, preferirebbe rimanere sul monte piuttosto che assumere la responsabilità di quanto sperimentato. Come Cleopa e l’altro discepolo, che ritornano a casa invece di affrontare la gloria della risurrezione, e quindi il rischio della conversione.
È più facile tornare schiavi che vivere la libertà, cedere alla logica del potere piuttosto che servire, rimanere fermi e comodi anziché sporcarsi le mani (e i piedi!) con la responsabilità di testimoniare. Fuggire, dolersi, tornare indietro, piangere e lamentarsi è comunque meno faticoso che vivere da risorti.
Al ritorno da una esperienza forte di ritiro, di ascolto della Parola, di servizio, di confronto: torno a casa pieno di buoni propositi e convinzioni forti. Poi i giorni feriali e i luoghi soliti ne smorzano lo slancio. Come quando nella prima settimana di scuola, quaderni in ordine e libri sottolineati a cinque colori. Poi i mesi successivi una costante apnea e un affanno angosciante. Oltre che miriadi di sensi di colpa.
Mi piacerebbe partecipare, ma non posso (perché scelgo altro). Sarebbe bello, ma tanto non ci riuscirò mai (troppo impegnativo). Altrove vado a cercare la felicità, ad altri ho deciso di affidare la mia vita. Se c’è da sacrificare qualcosa preferisco destinarlo agli idoli della comodità e della convenienza, della famiglia e della religiosità distorta, del successo e dell’apparenza, del denaro e dei desideri.
Anche il prete ormai si lascia soffocare e si adegua alle nuove idolatrie. E con lui l’intera comunità cristiana. La ricerca della quantità, del consenso, dell’affermazione di sé, dei primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze. La prostrazione davanti a chi conta. A chi “serve”. La sottomissione all’illegalità, ad ogni tipo di scorciatoia, alla novità a tutti i costi o alla consuetudine priva di orizzonti.
Insomma, il pericolo dell’idolatria esiste ancora. E non solo tra coloro che “celebrano” la domenica allo stadio o al centro commerciale, ma anche tra coloro che partecipano all’eucaristia. Tra chi erige nuovi templi dedicati ad ogni genere di divinità e coloro che trasformano il tempio vero, la Chiesa, in un luogo di mercato. In ogni senso.
Non so se l’uomo è accecato dai proverbiali specchietti per le allodole, oppure se è Dio che non ci vede bene. Egli continua, sorridente, a spargere, e grazia su grazia, la sua fiducia in noi, il suo amore per tutti.
(tratto da Dino Pirri, Dalla sacrestia a Gerico, ed Ave)
È più facile tornare schiavi che vivere la libertà, cedere alla logica del potere piuttosto che servire, rimanere fermi e comodi anziché sporcarsi le mani (e i piedi!) con la responsabilità di testimoniare. Fuggire, dolersi, tornare indietro, piangere e lamentarsi è comunque meno faticoso che vivere da risorti.
Al ritorno da una esperienza forte di ritiro, di ascolto della Parola, di servizio, di confronto: torno a casa pieno di buoni propositi e convinzioni forti. Poi i giorni feriali e i luoghi soliti ne smorzano lo slancio. Come quando nella prima settimana di scuola, quaderni in ordine e libri sottolineati a cinque colori. Poi i mesi successivi una costante apnea e un affanno angosciante. Oltre che miriadi di sensi di colpa.
Mi piacerebbe partecipare, ma non posso (perché scelgo altro). Sarebbe bello, ma tanto non ci riuscirò mai (troppo impegnativo). Altrove vado a cercare la felicità, ad altri ho deciso di affidare la mia vita. Se c’è da sacrificare qualcosa preferisco destinarlo agli idoli della comodità e della convenienza, della famiglia e della religiosità distorta, del successo e dell’apparenza, del denaro e dei desideri.
Anche il prete ormai si lascia soffocare e si adegua alle nuove idolatrie. E con lui l’intera comunità cristiana. La ricerca della quantità, del consenso, dell’affermazione di sé, dei primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze. La prostrazione davanti a chi conta. A chi “serve”. La sottomissione all’illegalità, ad ogni tipo di scorciatoia, alla novità a tutti i costi o alla consuetudine priva di orizzonti.
Insomma, il pericolo dell’idolatria esiste ancora. E non solo tra coloro che “celebrano” la domenica allo stadio o al centro commerciale, ma anche tra coloro che partecipano all’eucaristia. Tra chi erige nuovi templi dedicati ad ogni genere di divinità e coloro che trasformano il tempio vero, la Chiesa, in un luogo di mercato. In ogni senso.
Non so se l’uomo è accecato dai proverbiali specchietti per le allodole, oppure se è Dio che non ci vede bene. Egli continua, sorridente, a spargere, e grazia su grazia, la sua fiducia in noi, il suo amore per tutti.
(tratto da Dino Pirri, Dalla sacrestia a Gerico, ed Ave)