La Misericordia abbraccia la sterilità – terza domenica di quaresima

La Misericordia abbraccia la sterilità – terza domenica di quaresima

A cura delle monache clarisse del Monastero “Santa Speranza” di San Benedetto del Tronto

Da un monte ad un altro: dal Tabor al Sinai, dal monte della trasfigurazione, dove Gesù manifesta la sua gloria agli

Eppure, come leggiamo nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, questo popolo, sul quale il Signore si è chinato per far misericordia e davanti al quale ha operato prodigi grandi, già in terra d’Egitto e poi durante tutto il cammino nel deserto, ha indurito il proprio cuore, disprezzando il Signore. E non servì loro bere l’acqua sgorgata dalla roccia né mangiare il pane degli angeli, cose nelle quali sono prefigurati i sacramenti della salvezza, ma, poiché continuarono a mormorare, non entrarono nella terra promessa.occhi dei discepoli, al “monte di Dio”, l’Oreb, dove IHWH si rivela a Mosè nel roveto ardente. Leggendo la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, siamo “catturati” da un gioco di sguardi che si rincorrono: Mosè guardò il roveto e si avvicina ad osservare; il Signore vide che si era avvicinato e si rivela a lui come il Dio che ha osservato la miseria del suo popolo. E nel dialogo che intercorre tra Mosè e il Signore scopriamo che ci possono essere diversi modi di guardare, che esprimono modi diversi di porsi dinanzi a se stessi, a Dio e agli altri, cioè, di interpretare la propria esistenza di credenti. Mosè, all’inizio del brano, è presentato come un uomo comune, un pastore, nell’atto di compiere il suo lavoro quotidiano, che, ad un tratto, si trova di fronte ad un fatto singolare: un roveto che è avvolto dalle fiamme ma, pur bruciando, non si consuma. Allora egli si avvicina per “osservare questo grande spettacolo”: qualcosa di inconsueto si insinua nel tran tran quotidiano e stimola la sua curiosità. Non immagina, Mosè, che lì c’è il Signore che lo vede e lo chiama per nome, chiama proprio lui e gli ordina di togliersi i sandali per restare a piedi nudi perché quel suolo, chissà quante volte già battuto al seguito del gregge, è una terra santa. Ed è in questo luogo che gli si fa incontro il Signore e si presenta come un Dio familiare, “il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”, uno “di casa”, potremmo dire, talmente vicino che ha potuto osservare la miseria del suo popolo, udire il suo grido e conoscere le sue sofferenze, un Dio che, nel rivelare il suo nome proprio, “Io-Sono”, svela anche la sua “vocazione”: Io-Sono il Dio con voi, per voi, per sempre, di generazione in generazione. E rivelando se stesso, Dio rivela anche a Mosè la sua vocazione: andare presso i suoi fratelli, il popolo di Israele, per far conoscere loro il Dio dei loro padri, che è sceso per liberarli dalla schiavitù dell’Egitto e farli entrare nella terra promessa.

Mormorazione, pettegolezzo, chiacchiere … comincia così il brano evangelico scelto per questa domenica: alcuni vanno a chiacchierare con Gesù di certe disgrazie avvenute e, dalle risposte di Gesù riportate dall’evangelista, sembra che l’intenzione fosse quella di attribuire la colpa di tali fatti alla cattiva coscienza degli stessi disgraziati protagonisti e di prendere le distanze da quello che è successo. Ma Gesù non si lascia trascinare sul terreno dei loro ragionamenti ed ammonisce per due volte: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Quindi racconta la parabola del fico, che un tale aveva piantato nella sua vigna e che, dopo tre anni, non aveva ancora dato frutti, per cui egli ordina al vignaiolo di tagliarlo, perché non sfrutti il terreno.

La vita, la storia, la quotidianità, nostra e dei nostri fratelli, non è uno “spettacolo” sembra dire Gesù, non è un reality, non è una fiction, non è un videogioco e neanche un telegiornale davanti al quale si sediamo comodamente immersi nelle nostre poltrone, da dove, senza smuoverci di un centimetro e senza alzare un dito se non per manovrare il telecomando, ci sentiamo in dovere di fare i nostri commenti e le nostre chiacchiere, condannando e assolvendo, gratuitamente, seguendo la nostra curiosità, anche morbosa, a volte, ma senza farci sfiorare e neanche interrogare da quello che succede, tanto… noi siamo a posto, andiamo a messa, facciamo il nostro dovere, non ci mischiamo con queste cose!

La Parola di questa domenica, invece, ci dice che, per un credente, la quotidianità è una terra santa, ogni evento è il luogo in si rivela la presenza del Signore che vuole entrare in relazione con noi, farci conoscere la sua volontà di bene e consegnarci una missione: scendere in campo a sporcarci le mani per liberare noi stessi e i nostri fratelli dalle molte schiavitù che privano l’uomo della dignità di figlio di Dio, amato e redento dal suo sangue versato sulla croce dal suo Figlio, Gesù.

Essere credenti vuol dire essere alberi piantati nella vigna di Dio, in cui la fede, attinta dai sacramenti come linfa vitale, o genera frutti maturi e gustosi, cioè esistenze infiammate dalla carità che saziano la fame d’amore di tanta umanità, oppure produce solo foglie, sterile apparenza, destinata a seccare, essere dispersa da qualsiasi vento, cadere e, infine, marcire.

E se, guardandoci nello specchio della Parola dovessimo scoprirci proprio così, sterili, mormoratori, spettatori inutili? E’ ancora la misericordia di Dio che ci viene incontro sotto l’aspetto del vignaiolo della parabola, il Signore Gesù che per primo crede nell’uomo e ha fiducia che saprà portare frutto: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”.

Con il salmista eleviamo al Signore il nostro canto: Benedici il Signore, anima mia,/ quanto è in me benedica il suo santo nome (…) Perché quanto il cielo è alto sulla terra,/ così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.

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