Gomer, la moglie adultera, si è prostituita e si è coperta di vergogna, in cambio di pane, acqua, lana, lino, olio e deliziose bevande. Ma alla fine è rimasta senza niente. Delusione e desolazione. Ancora più nuda e più affamata di prima.
Il piacere è a portata di mano e arriva subito, ma altrettanto in fretta finisce e si spegne. E rimane la delusione che sia già finito e la fame di volerne di più. La fame e la sete. La perdita della libertà e la mancanza della vita.
Ma Osea non ha intenzione di abbandonarla. La vuole ancora. L’ama, nonostante tutto.
Ed è umanamente incomprensibile e sovversivo.
Gesù sceglie di stare con i miscredenti, i maledetti e i peccatori, rimanendo fedele a questo spregiudicato modo di amare, fino a perdere dignità e diritti.
«I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: "Costui accoglie i peccatori e mangia con loro"» (Luca 15,2).
Dio non si accontenta di possedere 99 pecore, quando sa che una sola è infelice. Lui ha deciso di essere Dio, soprattutto per quella. E non è una questione di convenienza, ma di amore.
Dio non cerca la quantità e nemmeno la qualità. Cerca me, come l’essere più prezioso di fronte a tutta la creazione.
Dio è l’amante che davanti a una folla incalcolabile di bellezza, fa sentire la sua amata, l’unica. E ti corteggia sempre, anche quando sei struccato e non hai nulla di attraente addosso.
Se questa donna non smette di prostituirsi, neppure di fronte alla minaccia di essere abbandonata definitivamente, e non ha a cuore neanche la sorte dei suoi figli, allora il marito innamorato le chiuderà la strada, gli opporrà ogni sorta di ostacolo e lascerà addirittura che si perda per qualche momento.
L’amante geloso escogiterà tutta una serie di dispetti, per impedire alla moglie di tradirlo. Come Dio, che con me le ha provate tutte e ancora non si rassegna.
«Perciò ecco, ti chiuderò la strada con spine,
la sbarrerò con barriere
e non ritroverà i suoi sentieri.
Inseguirà i suoi amanti,
ma non li raggiungerà,
li cercherà senza trovarli» (Osea 2,8-9).
Dio è come un padre, che provvede alla felicità dei suoi figli.
Ma i figli non se ne accorgono o non gradiscono le premure e i consigli del padre. Preferiscono fare da soli, seguire le loro strade, sperimentare la loro idea di libertà. E prima o poi se ne vanno, alla ricerca di altre regole, di altri padri, di altri amanti. Il più lontano possibile. Lo abbiamo tutti questo irrefrenabile fascino per l’esotico.
Sempre, il gioco si rompe e l’idolo delude. Gli amanti ti promettono grandi cose, ma in realtà ti succhiano via giovinezza, opportunità, sostanze, cuore, vita. E sopraggiunge la mancanza e cominci a trovarti nel bisogno.
Gesù per spiegare come ama Dio, racconta proprio una di queste storie. Di un ragazzo, che desidera essere libero a modo suo, slegato dalle premure e dalle regole della casa paterna. Negando addirittura l’esistenza del proprio padre e della propria identità.
Anche Israele non sa riconoscere colui che dà vita e prosperità, cadendo in una terribile idolatria del benessere. E sovente, neppure io. Quando sono convinto delle mie buone idee e dei miei progetti geniali, e basta. Quando sono convinto che dipende tutto da me, che ci penso io, che se voglio cambio, che smetto quando voglio, che tanto io sono diverso. E invece, come il ragazzo citato da Gesù, mi ritrovo letteralmente nella merda.
«Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Luca 15,15-16).
Osea con Gomer, Dio con Israele, con la Chiesa e anche con me, agisce come un amante geloso, o come quel padre.
Ti lascia libero. Ti fa andare per la tua strada. Ti fa sperimentare le tue idee geniali di libertà. E ti lascia fare il male. E ti lascia farti del male. Finché non ne puoi più.
C’è un dolore che non riusciamo a spiegare. Ma, qualche volta, c’è un dolore di cui percepiamo il senso, come un avvertimento, come l’accensione di una spia rossa del motore, come il sintomo di una malattia, come l’anticipo di un collasso.
Dio sembra assecondarci, anche quando ci facciamo male, ma come un padre premuroso e un amante geloso, ogni tanto ci manda segnali. Ci fa sperimentare la fame e la sete, il bisogno, la delusione, la solitudine, l’abbandono, il fallimento, il dolore.
«Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". Si alzò e tornò da suozsaz< padre» (Luca 15,17-20).
Quando riesci, anche per un istante, a guardarti con verità, dentro. E ti accorgi che non c’è più niente di attraente. Nulla per cui valga la pena aver vissuto. La fame e la sete, che vorresti placare a qualsiasi costo, sottostando a qualunque condizione, fino ad accontentarti delle ghiande dei maiali. E hai voglia solo di risorgere, cioè di una vita totalmente nuova, diversa. Una vita, che da solo non ti puoi dare.
E ripensi a Dio, come a quel padre e come a quell’innamorato, disposto a perdonare tutto, purché tu sia felice.
Una notte d’estate, l’ho fatto. Ho trovato il coraggio e la disperazione di quello sguardo. Stavo nel luogo più lontano dalla felicità, davanti a un crocifisso. E davanti a me stesso.
Ho cominciato a desiderare quel ritorno, quella nuova possibilità di vita. E, forse, per l’unica volta in vita mia, ho avuto la certezza che il mio pensiero fosse lo stesso di Dio, che la mia strada fosse la sua strada, che i miei desideri fossero il suo desiderio.
«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15,20).
Ho ricevuto quell’abbraccio e quella compassione. Ho visto Dio corrermi incontro, per baciarmi con tenerezza. Ho sentito il battito del suo cuore. Anche se ero lontano, io. Non lui.
Sono stato raggiunto dentro la mia impossibilità e la mia prigionia. Sono stato amato, benché fossi ancora peccatore e non ho neppure smesso di esserlo.
Allora dirà: "Ritornerò al mio marito di prima,
perché stavo meglio di adesso".
Non capì che io le davo
grano, vino nuovo e olio,
e la coprivo d'argento e d'oro,
che hanno usato per Baal.
Finalmente ho capito da chi mi dava grano, vino nuovo e olio. Finalmente ho riconosciuto chi mi copriva il capo d’argento e d’oro. Colui che mi ha rivestito con l’abito più bello, mi ha donato l’anello più prezioso, ha fatto festa offrendo il vitello più grasso. E finalmente, dopo tanto, mi sono sentito a casa. Finalmente ho sentito la vita.
Al tempo di Osea era proibito accogliere in casa una donna infedele, che era stata ripudiata. Era proibito persino allo stesso marito, che non poteva tornare indietro, secondo la Legge. Quell’uomo sarebbe stato contaminato dello stesso male imperdonabile della donna.
Al tempo di Gesù era vergognoso e imprudente frequentare i miscredenti, i maledetti e i peccatori. Come un padre onesto, avrebbe dovuto accogliere quel figlio ingrato al massimo come un servo, come una continua penitenza.
Dio non avrebbe dovuto neppure perdonare me.
«Ma non è cattiva. Non aveva capito», dice Osea per giustificare sua moglie. «Non sei cattivo. Ti eri perduto», dice quel padre per giustificare il figlio. «Non sei cattivo. Non avevi capito», mi disse il Signore in quella notte d’estate, sorridendomi dalla croce.
Ti amo. Ti desidero felice. A costo di sporcarmi con il tuo male. Nonostante le brutte figure che mi fai fare. Soprattutto quando ti ritroverai infedele e ingrato. Fino al luogo più lontano, basso e oscuro in cui ti andrai a cacciare. Fino a lasciarmi inchiodare sulla croce. Per te, che mi maledici, mi deridi, mi allontani, mi vuoi morto.
E neanche questo spegnerà il mio amore, la voglia di stare con te.
«”Padre”, dice “perdonali”. Che cosa si poteva aggiungere di dolcezza, di carità a una siffatta preghiera? Tuttavia egli aggiunse qualcosa. Gli sembrò poco pregare, volle anche scusare. “Padre, disse, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. “Io ho nascosto loro il mio volto, non riconobbero la mia maestà. Perciò, Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”» (Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della carità, III, 5).