Al popolo viene annunciato un futuro disastroso. Senza re, senza compassione di Dio, senza più neanche Dio.
A chi legge oggi queste parole potrebbe sembrare un futuro tutto sommato accettabile. Quasi tutti oggi vivono, teoricamente o praticamente, senza Dio e sembrano cavarsela a meraviglia. Ma per i contemporanei di Osea, che ascoltavano la voce del profeta, è tutta un’altra musica.
Attraverso l’infedeltà di Gomer e la nascita dei tre figli di prostituzione, gli israeliti vedevano la promessa di una catastrofe.
Stare senza il re, significava rimanere senza stabilità politica ed economica e senza identità.
Non fare più esperienza della compassione di Dio, cioè del suo sguardo, della sua cura, del suo abbraccio come per un innamorato perdere l’amore. Si rimane senza respiro e senza fondamento, si perde improvvisamente ogni motivazione per affrontare la vita, ogni prospettiva, ogni speranza di futuro. Soltanto chi ha conosciuto, almeno una volta, la misericordia di Dio può comprendere il dramma. Soltanto chi è stato, almeno una volta, innamorato.
E allora rimani senza niente. Per chi aveva solo Dio dalla sua parte, solo Dio come speranza, solo Dio come identità, rimanere senza Dio, equivaleva a rimanere senza niente, fino a perdere completamente se stessi.
Ecco la condizione promessa: rimarrai senza le tue cose e senza le tue sicurezze, poi non avrai più nessuno che si prenda cura di te, che si preoccupi della tua esistenza. E infine perderai te stesso: non saprai il valore della tua vita, non ne conoscerai il senso. Davanti a te, il vuoto.
Ma perché dovrebbe accadere tutto questo?
Pare che gli affari vadano bene, il governo regge, la gente frequenta i luoghi di culto, gli anziani sono radicati nelle tradizioni e i giovani guardano al futuro. Perché dovrebbe accadere tutto questo?
Il marito tradito trascina la moglie adultera in tribunale, insieme ai figli di prostituzione.
In realtà, per questioni simili non esisteva un edificio chiamato “tribunale”, né un vero e proprio giudice. Si andava alla porta della città, dove c’era sempre un via vai di gente, e pubblicamente si esponeva il caso, nel tentativo di trovare una giusta soluzione. Senza avvocati, senza giudici, senza tribunale. Molto simile a un talk show, in cui ciascuno dice la sua, si litiga e ci si azzuffa, emergono particolari scabrosi e retroscena clamorosi. E tutto è sottoposto al giudizio di tutti.
È una forma particolare di processo, quella a cui stiamo per assistere, poiché si dà per scontata la colpevolezza dell’imputata, che non ha alcun diritto di parola, e per la quale si dovrà stabilire soltanto l’entità della condanna. La giusta condanna è la morte per lapidazione, cioè l’ammazzeranno a sassate. Lo comanda la legge. E così è giusto.
Osea trascina la moglie in piazza, davanti a tutti e si rivolge ai suoi stessi figli, in quanto vittime della condotta sconsiderata della madre e insieme testimonianza della sua infedeltà. Si rivolge ai figli, perché non riesce a guardare negli occhi la sua donna. Non riesce a rivolgerle parola. Osea è profondamente ferito nell’anima. Osea la ama ancora nel profondo del suo cuore.
Accusate vostra madre, accusatela,
perché lei non è più mia moglie
e io non sono più suo marito! (Osea 2,4)
Ma Osea la ama ancora. Ne prova ribrezzo e la ama.
Israele si sta comportando come una madre irresponsabile e una moglie infedele. Una prostituta senza alcuna dignità, che è disposta a scendere a qualsiasi compromesso, pur di conservare i suoi clienti.
Israele aveva conosciuto il Signore, come il vero Dio, il liberatore, il provvidente in tutto.
«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato» (Deuteronomio 26,5-9).
Era chiaro che la liberazione fosse opera del Signore. Era chiaro che la terra fosse un dono del Signore. Era chiaro che i frutti della terra e la prosperità fossero opera del Signore. Era la costituzione di Israele, principio e fondamento.
Ma Israele, una volta abitata la terra e raggiunta la prosperità, comincia a volgere altrove il suo sguardo, cerca divinità più moderne, promuove culti esotici. E tanto più diventa tiepida la fede nel Signore che ci desidera liberi, tanto più cresce l’entusiasmo per Baal, che ci vuole dipendenti e chiede di prostituirsi in suo nome.
Si abbandona Dio, non perché sia troppo esigente, ma perché appare fuori moda. E ci si sottopone a fatiche e umiliazioni spropositate, per sembrare al passo con i tempi. Fuori e dentro la Chiesa. La questione non è più il Dio vero o falso, il profeta vero o falso, l’amore vero o falso, ma quello che è di moda.
Israele adesso pensa di ottenere sicurezza, prosperità, liberazione e felicità da Baal, che divora la vita dei suoi adepti. E ha abbandonato il Signore, che offre la sua vita per i suoi figli. Perché da Dio sembrano venire soltanto doveri, prescrizioni, obblighi e rinunce. Baal promette il paese dei balocchi. La sottile differenza tra felicità e piacere.
«Dove vuoi trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri; lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!» (Le avventure di Pinocchi, cap. XXX).
Baal ti promette l’illusione di rimanere giovane, allegria e chiasso, tanti giochi e tante evasioni.
«Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno: questi facevano a moscacieca; quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi» (Le avventure di Pinocchi, cap. XXXI).
Per non farti vedere, per non farti sapere, per non farti sentire, per non farti pensare, per non farti più essere.
Un giorno ci si sveglierà dal sogno e dall’inganno, senza preavviso, irriconoscibili e tristi, soli e senza più niente.
Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni
e i segni del suo adulterio dal suo petto;
altrimenti la spoglierò tutta nuda
e la renderò simile a quando nacque,
e la ridurrò a un deserto, come una terra arida,
e la farò morire di sete.
I suoi figli non li amerò,
perché sono figli di prostituzione.
La loro madre, infatti, si è prostituita,
la loro genitrice si è coperta di vergogna,
perché ha detto: "Seguirò i miei amanti,
che mi danno il mio pane e la mia acqua,
la mia lana, il mio lino,
il mio olio e le mie bevande" (Osea 2,4-7).«Quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di malumore» (Le avventure di Pinocchio, XXXI).