La scelta di Dio su Osea è simbolica, cioè vuol rimandarci ad altro.
Non si affronta qui alcun discorso morale, né si mette in questione la dignità della donna o le sue libere scelte. Semplicemente si sceglie la vita di Osea, come segno rivelatore di una realtà più grande. A Dio piace rivelarsi così: attraverso la storia. La storia di un uomo e sua moglie, attraverso la storia di un popolo e il suo Signore.
«Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso. Non fare alleanza con gli abitanti di quella terra, altrimenti, quando si prostituiranno ai loro dèi e faranno sacrifici ai loro dèi, inviteranno anche te: tu allora mangeresti del loro sacrificio. Non prendere per mogli dei tuoi figli le loro figlie, altrimenti, quando esse si prostituiranno ai loro dèi, indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ai loro dèi» (Esodo 34,14-16).
Ecco cosa vede Dio nella relazione complicata tra Osea, il profeta, e Gomer, la prostituta. Un popolo intero, scelto come sposa tra tutte le nazioni, che nel tempo della prosperità si dimentica dell’amore geloso del suo sposo e se ne va con chiunque.
Dice Dio:
«Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso…» (cfr. Esodo 20,4-6).
Israele nel tempo del deserto e della prosperità ha sempre avuto questa tentazione: l’idolatria. Cioè la tentazione di chiedere la vita a qualcosa che non dà la vita, la felicità a qualcuno che non può rendermi felice. È un sofisticato sistema di illusioni, che metto in atto ogni volta che mi sento insicuro. La risposta immediata ma inconcludente ai miei limiti. La fatica quotidiana di riempire i miei vuoti.
L’idolatria funziona più o meno così. E funziona sia nella vita dei credenti sia nella vita di coloro che affermano di non credere.
Inizialmente ti fai una immagine: sarò felice se… sarò felice con… sarò felice quando… E l’immagine tende a diventare una fissazione, un’ossessione. L’idolo è semplicemente la proiezione della tua idea di felicità su un oggetto o su un progetto. È il gioco attraente della pubblicità, che ti mostra un’immagine, associata a un oggetto. E tu cominci a coltivare l’idea che la tua felicità dipenda da quell’oggetto.
Come da bambini, abbiamo desiderato ardentemente il possesso di quel giocattolo, pubblicizzato in televisione, e al possesso di quell’oggetto, a quell’immagine, abbiamo legato la nostra felicità, l’amore dei nostri genitori, il rispetto dei compagni di classe, il divertimento illimitato. Da grandi continuiamo a credere che la nostra realizzazione dipenda da un oggetto o da un possesso o da una relazione o da una determinata carriera o da una devozione.
Fatta l’immagine, innescata l’illusione, ti prostri ad essa, disposto a sacrificare tutto per essa. Come da bambini, si promette qualsiasi cosa e si accetta qualsiasi condizione, pur di avere quel giocattolo.
E cresciamo con l’idea, appunto, che la vita sia una serie di sacrifici da affrontare pur di raggiungere il tuo obiettivo. E tutto è sacrificabile per il tuo obiettivo. Veri e propri sacrifici umani, come nell’antichità: alla carriera, alla forma fisica, alla moda, all’estetica, al successo, alla popolarità, alla ricchezza, al divertimento.
Ma non si è mai soddisfatti, perché la felicità è altro. È sempre altrove. Come da bambini, il giocattolo dopo un po’ stufava, perché non era proprio come nella pubblicità, perché ne usciva uno nuovo, perché si rompeva. E tu avevi promesso il mondo e sacrificato tutto il resto, ritrovandoti una cosa morta in mano, un idolo muto, sordo, cieco, insensibile al tuo infantile desiderio di felicità.
E ne vuoi un altro. E ne vuoi di più. E ne vuoi ancora. E non ti basta mai. Diventi schiavo delle tue illusioni, in attesa di un premio che non arriva mai. E allora subentra la tristezza, la noia, l’insoddisfazione.
Qui arriva il terzo e più tragico stadio: «…e non li servirai», dice. Gli idoli schiavizzano. Promettono felicità ma non la danno; e ci si ritrova a vivere per quella cosa o per quella visione, presi in un vortice auto-distruttivo, in attesa di un risultato che non arriva mai.
«Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso…» e voglio che tu sia davvero felice (cfr. Esodo 20,4-6).
Dio ti ama sul serio, disposto a donarti la sua vita, e tu te ne vai a cercare altri amanti, che in definitiva ti usano per il loro piacere e poi ti abbandonano. Ecco la vera prostituzione.
«Gli idoli delle nazioni sono argento e oro,
opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono;
no, non c’è respiro nella loro bocca.
Diventi come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida». (Salmo 135,15-18)
Questo vuole ricordarci Dio, attraverso la vita di Osea, il profeta.
«Gli idoli promettono vita, ma in realtà la tolgono. Il Dio vero non chiede la vita ma la dona, la regala. Il Dio vero non offre una proiezione del nostro successo, ma insegna ad amare. Il Dio vero non chiede figli, ma dona suo Figlio per noi. Gli idoli proiettano ipotesi future e fanno disprezzare il presente; il Dio vero insegna a vivere nella realtà di ogni giorno, nel concreto, non con illusioni sul futuro: oggi e domani e dopodomani camminando verso il futuro. La concretezza del Dio vero contro la liquidità degli idoli. Io vi invito a pensare oggi: quanti idoli ho o qual è il mio idolo preferito? Perché riconoscere le proprie idolatrie è un inizio di grazia, e mette sulla strada dell’amore» (Francesco, 2018).