Guai a me se non predicassi il vangelo!

Guai a me se non predicassi il vangelo!

In seguito al mio articolo sulle "chiese vuote", molti mi hanno chiesto di andare oltre l'analisi per avanzare qualche soluzione. Sinceramente non ne ho, ma provo a fare qualche proposta per animare il dibattito, a partire da una questione antica.

Si può mangiare la carne sacrificata agli idoli?

Al tempo di san Paolo era una questione fondamentale all’interno della comunità cristiana. E come tante “questioni fondamentali” della Chiesa di oggi, diventeranno irrilevanti con il passare del tempo e delle stagioni.

San Paolo non vede nulla di scandaloso in quelli che ne mangiano, poiché consapevoli della vanità degli idoli. Tuttavia, decide di non mangiarne in presenza di quei fedeli ancora timorosi e legati alla tradizione. Decide di non infierire.

«Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli» (1Cor 8,8-9). 

A coloro che contestano questo atteggiamento Paolo pone come argomentazione la propria libertà. Poiché è libero di mangiare quella carne, è libero anche di non mangiarla. «Non sono forse libero, io?» (1Cor 9,1).

E come esempio, propone la scelta estrema di rinunciare anche a qualche diritto, al fine di favorire la diffusione del vangelo. Egli, infatti, ha scelto di non farsi mantenere dalla comunità, in quanto apostolo che annuncia il vangelo, anche se questo è un diritto assodato e incontestabile. Paradossalmente rivendica il diritto di rinunciare a un suo diritto, la libertà di limitare la sua libertà.

Paolo si vanta di aver rinunciato a tale diritto, per annunciare gratuitamente il vangelo, rendendo visibile l’azione gratuita e potente di Dio, rivelata in Gesù Cristo Crocifisso.

Questa decisione, su una questione oggi irrilevante, potrebbe fare emergere domande attuali: i diritti acquisiti dalla Chiesa in Italia, quando non si tratta di veri e propri privilegi, favoriscono o sono di ostacolo all’annuncio del vangelo?

L’apostolo direbbe oggi che certi diritti li abbiamo acquisiti sul campo, in cambio di servizi preziosi alla società. E alla Chiesa giustamente va il riconoscimento e la ricompensa da parte della società civile. Come il soldato ha diritto alla sua paga, l’agricoltore ha diritto a nutrirsi dei frutti che produce e il pastore del gregge che alleva. Anzi, per il bene offerto alla comunità non si verrebbe mai ricompensati adeguatamente.

Tuttavia, Paolo, in quanto apostolo libero, fa un’altra scelta. Una scelta contestata da molti. Rinuncia al diritto di essere “ricompensato” per il suo servizio. Rinuncia al suo legittimo diritto ad essere mantenuto. Rinuncia all’otto per mille e privilegi vari, affinché il suo annuncio appaia inequivocabilmente opera gratuita di Dio. Rinuncia alle varie offerte, più o meno libere, affinché nessuno abbia il minimo dubbio che le cose di Dio non si concedono al miglior offerente. E neanche le cose della Chiesa.

Una bella provocazione quella di Paolo, che sceglie di campare lavorando, senza che la forza del suo apostolato ne risulti svigorita.

Immagino quale dibattito si accenderebbe nella comunità cristiana di oggi: la paura dell’abolizione del sostentamento del clero, il fastidio provocato da un prete che non chiede la legittima offerta; il pastore che non scavalca le file e le graduatorie, con la scusa di doversi dedicare al bene dei fedeli; il vescovo che deve partire mezz’ora prima, altrimenti arriverebbe in ritardo, non trovando parcheggio.

Se ne può discutere, direbbe l’apostolo Paolo. O forse no, diremo noi. Ma su una questione non si può proprio discutere. Puoi decidere se campare grazie alla generosità della comunità o al lavoro personale. Ma non puoi scegliere se testimoniare o non testimoniare il vangelo.

«Sta sopra di me una necessità», dice Paolo. La predicazione del vangelo non è una scelta, per un cristiano. Uno sceglie di fare il soldato, un altro il contadino, un altro il pastore. Ma annunciare il vangelo non è una scelta, per un cristiano: fa parte della sua natura, non può fare diversamente.

«Guai a me se non annunciassi il vangelo!» (1Cor 9,16).

Noi cristiani siamo figli di Dio, liberi. Possiamo scegliere se sposarci oppure no. Possiamo scegliere di diventare preti, frati, suore, diaconi, catechisti, lettori, cantori. Qualcuno, in cuor suo, ha deciso anche di diventare vescovo. Possiamo decidere se avere figli oppure no. Possiamo scegliere una professione piuttosto che un’altra. Possiamo scegliere se prestare un servizio in parrocchia o niente.

Ma una cosa non possiamo deciderla: se testimoniare o non testimoniare il vangelo.

Dice il battezzato Paolo: predicare, testimoniare, annunciare, proclamare - in una parola, vivere - il vangelo non è una scelta, ma un dovere, anzi una necessità.

Un cristiano può scegliere tante cose, ma non può sottrarsi dovere e alla necessità di proclamare il vangelo, per non perdere se stesso, il proprio sapore, la propria identità, la salvezza.

E questo vale anche per la Chiesa nel suo insieme, in quanto comunione di battezzati. La sua identità e la sua sopravvivenza non dipendono dagli spazi occupati o riempiti, né dalle pubbliche manifestazioni di culto, né dalle strutture edilizie possedute e utilizzate, né dalla cultura prodotta, né dai diritti né dai privilegi.

La Chiesa, comunità dei discepoli di Gesù Cristo, ha soltanto la necessità e il dovere di annunciare il vangelo del suo Signore, di vivere la novità del regno di Dio. Come un comando che lo schiavo ha ricevuto dal suo padrone, che richiede pronta obbedienza, senza aspettative di ricompensa (cfr. Lc 17,10).

Tutto il resto si può scegliere, in base alle circostanze e alle opportunità. La proclamazione del vangelo è un dovere, una necessità, un atto da cui dipende la propria esistenza e la propria salvezza.

Scriveva Paolo VI nel 1975:

«Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare…» (Evangelii Nuntiandi, 14).

Nel 2013, Francesco rivolge ai fedeli cristiani l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, per invitarli «a una nuova tappa evangelizzatrice», indicando il cammino della Chiesa negli anni successivi. Come una necessità, come un dovere.

Dopo 10 anni, possiamo dire che noi fedeli cristiani, nella Chiesa che è in Italia, abbiamo intrapreso una nuova tappa evangelizzatrice?

 

Torna al blog

Lascia un commento

Si prega di notare che, prima di essere pubblicati, i commenti devono essere approvati.